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E' chiaro che la guerra all'Iraq è stata possibile solo grazie a una lunga serie di operazioni comunicazione giocate sul falso e che avevano come obiettivo quello di convincere l'opinione pubblica della necessità di un intervento militare. Il punto più alto di tutta la strategia è stata sicuramente la messa a punto del famoso dossier sull'uranio proveniente dal Niger e destinato al regime irakeno, dossier che dopo essere passato per le mani dei servizi segreti italiani, inglesi e americani ha finito per dimostrarsi un falso per la verità un po' raffazzonato.
E proprio dall'analisi della manipolazione delle informazioni durante la guerra in Iraq parte Disinformation Technology agile pamphlet uscito alla fine del 2003 e scritto da Walter Molino e Stefano Porro.
Ne emerge un quadro inquietante in cui la stampa e la televisione sembrano avere assunto un ruolo subalterno ai poteri economici e politici con buona pace della deontologia professionale e della verifica delle fonti.
Ma già dalla prima guerra del golfo questo modello di gestione del consenso aveva trovato un'espressione esemplare nel caso della falsa testimonianza fornita da una presunta donna kuwaitiana ai maggiori network televisivi statunitensi. Nayirah, così si chiamava la donna, aveva raccontato con le lacrime agli occhi delle violenze subite e di come i militari irakeni avessero fatto irruzione in un ospedale di Kuwait City arrivando a rapire i bambini dalle incubatrici. Fu l'ultima mossa mediatica prima dell'inizio dei bombardamenti del gennaio del 1991. Solo al termine di quel conflitto si scoprì che Nayirah era in realtà la figlia del ambasciatore kuwaitiano a Washington, che non aveva mai lasciato gli Stati Uniti e che il suo nome figurava nel libro paga dell'agenzia di comunicazione Hill&Knowlton pagata oltre 11 milioni di dollari da una lobby kuwaitiana.
In casi come questo non si tratta solo dei limiti interni ai processi di produzione delle notizie, ma di totale assenza di autonomia e di rinuncia all'esercizio di quel "quarto potere" che dovrebbe garantire la democrazia nelle società avanzate. L'uso del falso sembra diventato parte integrante della strategie di gestione del consenso e i media mainstream una semplice estensione del potere delle lobby. Per questo la versione televisiva della cattura di Saddam Hussein è stata generalmente percepita come la più improbabile tra le possibili, paradossalmente proprio perché a causa del suo essere versione ufficiale.
Ci si poteva aspettare che Molino e Porro, che provengono dalle culture della rete e che con la webzine Quinto Stato sono animatori della riflessione sui nuovi mezzi di comunicazione orizzontali, cedessero alla tentazione di una contrapposizione frontale. Invece gli autori di Disinformation Technology individuano il falso come nuovo territorio ontologico rispetto a cui la riflessione è obbligata a spostarsi e in cui soprattutto su Internet si giocano i nuovi conflitti.
La lunga carrellata sui falsi nati nella rete, che occupa la parte centrale del volume, è da questo punto di vista utile ed esemplare. Dalle beffe del Luther Blissett Project alla bufala dei gatti bonsai, da improbabili catene di Sant'Antonio alla presunta morte di Bill Gates è un succedersi di falsificazioni che, nate scientemente o casualmente, aprono spazi di immaginazione utopica e riconfermano le opportunità di marketing. Il caso americano di Hunting For Bambi, in cui un fantomatico organizzatore di safari prometteva la partecipazione a una caccia con fucili a vernice in cui le prede erano donne nude, è un esempio di guerriglia marketing che è riuscito a tracimare fino alla pagine di italiane di Repubblica.it. Il safari inesistente serviva unicamente a promuovere i video di una casa di produzione a luci rosse.
Operazioni di questo tipo sono ormai passate dalla semplice goliardia al mondo del marketing come a quello dell'arte o dell'azione diretta. Segno che il giudizio sarà costretto a spostarsi sempre di più verso questioni di carattere politico ed estetico che prescindono dalla veridicità degli eventi narrati.
Daltronde, come diceva Picasso, l'arte è la menzogna che ci fa capire la verità.
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